Claudio Rastelli
Compositore, direttore artistico, insegnante di scuola media, divulgatore. Sulla carta il mio punto d’osservazione è assai ampio. Rivolgo lo sguardo in modo diretto a istituzioni -pubbliche e private – mondo della musica, della politica, della scuola, dell’associazionismo, e, con sguardo più panoramico e trasversale, a chi “ascolta la musica”.
Rarissimi sono i casi di persone a-musicali, credo di averne conosciute due in tutta la mia vita. Gli altri, intravisti, osservati, incontrati, conosciuti, intimi, sono tutti ascoltatori: curiosi, immobili, distratti, onnivori, selettivi, presenzialisti, sinceri, dubbiosi, avventurosi…Li vedo dal palcoscenico, dalla cattedra, di fianco a me, di passaggio, per iscritto. Li osservo, ascolto cosa dicono, guardo come si comportano, mi scopro a immaginare i loro pensieri. Gli ascoltatori sono una moltitudine. Più uno. Il punto d’osservazione comprende anche me stesso, ovviamente. Anzi, no, non è ovvio. Ma è così. Un po’ per gioco e un po’ per interesse tento di sperimentare su me stesso quello che, si dice, provano “gli altri”: lo spaesamento, il disgusto, il fastidio, il sonno, la noia e tutti i rispettivi contrari, compensativi e superlativi. Secondo me – in questo caso l’incipit mi pare piuttosto appropriato – divento interessante oggetto di osservazione soprattutto quando “gioco fuori casa”, quando mi avventuro in territori nei quali sono costretto ad azionare le mie conoscenze, competenze, talenti e trasportare il tutto in ambiti meno familiari. In pratica, quando esco dal mondo strettamente musicale e vado a uno spettacolo di danza, di prosa, a una mostra, a un reading di poesia. In questi casi, mi dico, la mia posizione forse somiglia a quella degli ascoltatori non musicisti che vanno a un concerto. E allora mi indago, sento che mi interesso di più. Parto dalla punta dell’iceberg, dalla dichiarazione ufficiale di spaesamento e autoassoluzione, cioè da una frase sentita miliardi di volte ai concerti; la trasferisco nell’ambito in cui mi trovo, prendo il
respiro e m’immagino mentre mi dico: “Io non capisco niente di danza” (o di prosa, pittura, scultura, poesia…).
Suona male. Mi pare addirittura di non averla mai sentita riferita alla danza. Ecco perchè stona. Vuol dire che le persone si sentono ignoranti in musica e lo sono meno, o per nulla, in altri ambiti artistici? Non saprei. Allargo lo sguardo.
A Modena, nelle tante belle giornate di settembre passate in Piazza Grande, non ricordo di aver mai sentito dire “Io non capisco niente di Filosofia”. Già, ma non è un ambito artistico – non lo è!? – o forse nella marea di gente al Festival della Filosofia non si percepiscono i singoli commenti. Comunque suona male. E forse ho allargato troppo lo sguardo.
Invece “Io non capisco niente di musica” suona bene. E’ così comune da sembrare coniata proprio dagli ascoltatori. Probabilmente mi è familiare perchè sono un musicista, e allora, anche solo per un veloce scambio prima/dopo il concerto, il non musicista che m’incontra non si sente a proprio agio e dice la fatidica frase “Io non capisco niente di musica”. Vorrei tanto che non la dicesse, ma non resiste. La dice, anteponendola a un “però” e continuando con quello che m’interessa: il suo pensiero, il suo punto d’ascolto. “Io non capisco niente di musica, però…”. Ma io, quando fruisco in trasferta, ho mai detto o pensato “io non capisco niente di…”? Non potrei giurarlo. Provo a credere di no. Forse perché mi suona male, e questo per un musicista è già un buon motivo. O forse perché finora ho solo evitato il pericolo dribblando danzatori/attori/registi/pittori/…/. Invece gli ascoltatori lo dicono, anche se, secondo me, non lo pensano. Di sicuro non lo pensano mentre ascoltano la musica, e secondo me anche quando non la ascoltano. Potrebbero pensare “io non capisco la musica contemporanea”, ma non gli viene in mente di pensare “io non capisco niente di musica”. Perché? Perché non è vero. Ma allora perché lo dicono? E perché sempre a me e ai colleghi musicisti e non ad altri artisti? Penso: sto cercando
di dimostrare che la Musica è la più sfortunata? Voglio fare la vittima o semplicemente ho una visione limitata in quanto musicista?
Non sono certo che questa frase riguardi solo la Musica. Adesso telefono ad alcuni amici attori, registi, fotografi, e chiedo loro: “Fanno così anche con voi? Esiste anche da voi Io non capisco niente di? Qual è la vostra “fatidica frase?”. Ma in questo momento sono le 8 di domenica mattina, potrebbero rispondere in modo poco elegante alle mie domande. Li chiamo più tardi, anzi, domani. E allora torno a frugare nella mente del fruitore in trasferta. Bologna, Teatro San Leonardo, primi mesi del 1996, dopo il lungo monologo teatrale io e l’amico che era con me, spaesati e ammirati, ci confidiamo lo stesso pensiero: “Ma come fa a ricordarsi tutte quelle parole?”. Lui era fidanzato con la segretaria di produzione di quello spettacolo e andammo a dirlo a lei, che rispose, calma: “Vi perdete in un bicchier d’acqua”.
Che figura. Ecco perché è tornato a galla, persino l’anno mi ricordo, e circa anche il mese. Dentro di me scatta immediato il sistema di difesa: “Beh, mica ero andato a dirlo all’attore!…e poi non avevo detto “Io non capisco niente di Teatro”. Bene. Ma perchè l’abbiamo detto? Che bisogno c’era? Che rabbia. Quella frase è il corrispettivo di “Prof, come fa a spingere tutti quei tasti? Come fa a spingere proprio quelli giusti?”. I miei allievi hanno 11-13 anni, io nel ’96 ne avevo già 33. Comunque mi sto mettendo in discussione, io. Oggigiorno quanti lo fanno? Autoassolto. Stanno arrivando alcune risposte ai miei sms e whatsapp. Non sono riuscito a trattenermi. Del resto i “messaggini” puoi mandarli quando vuoi, a qualsiasi ora, anche alle 8 di domenica mattina. Mi risponde un amico fotografo professionista: “Che bella questa foto, sembra un quadro; come mi piace il bianco e nero, sembrano le foto di una volta”. Dice che queste frasi sono molto frequenti, ma “Io non capisco niente di Fotografia” non l’ha mai sentita. Il mio amico regista: “Io vado poco a teatro” – è quella che somiglia di più alla “fatidica” – per il resto mi riporta testimonianze di due suoi amici: un poeta “La poesia mi annoia, non la capisco”(eccola!) e un pittore “Lo saprei fare anch’io”. Frugo nel mio archivio e trovo”Come mi piace il bianco e nero”. Sono certo di averlo detto più volte proprio al mio amico fotografo. Forse il suo sms è una sottile vendetta che aspettava da anni. Comunque ho smesso di dirlo nel 2010, ora non lo direi mai, e comunque non ho mai detto “sembrano le foto di una volta”. Ma alla fine, quindi, un contributo di “fatidiche” l’ho dato anch’io. Allora non posso fare la vittima. Penso: “almeno mi metto in gioco, io”. Che fatica, però. Chiudo l’archivio.
Pare quindi che la poesia abbia un repertorio di frasi simili a quelle destinate alla musica. In effetti hanno molto in comune. Certo la Poesia almeno ha le parole, la musica nemmeno quelle. Anche la fotografia e le altre, però, sembrano soffrire. Non rifletto oltre perché mi appare improvvisa un’immagine molto recente. Sono a uno spettacolo di Vie Festival, rassegna di teatro contemporaneo curata da Emilia Romagna Teatro. E’ pieno di giovani! Un pubblico bello, vivo, molto idratato. Poi qualche finto giovane, altri più apertamente âgés, qualche addetto ai lavori, qualcuno vestito da addetto ai lavori. Di certo ci sono molti giovani, interessati e abituati a stare in teatro: buona tenuta psicofisica, concentrazione, postura piuttosto dignitosa e funzionale alla fruizione. Complessivamente “un vero pubblico”, espressione di una sincera domanda di teatro. Penso: ma quanto è “sincera” oggi la domanda di musica? E subito dopo: quanto è sincera l’offerta musicale attuale? Pessimista: è possibile oggi un’offerta musicale sincera? Musicista: è sincero ciò che proponiamo al pubblico? Seduto in platea: quelli che vedo sono fruitori migliori di quelli che vanno ai concerti? E tutti questi giovani…Certo, da una vita a scuola si studia la letteratura e il teatro, la musica invece inizia e finisce alle scuole medie. Provo a pensare male: in fondo i giovani seguono le mode e andare a teatro, probabilmente, è figo.
Non trovo una risposta al mio pensiero meschino, ma mi pare che per un giovane non sia figo andare a sentire la musica classica. E siccome da almeno un paio di decenni la categoria dei “ggiovani” si è ampliata, ora la parte degli idratati tocca farla ai 40enni. Una volta all’opera lirica ero seduto esattamente a metà di una fila di platea; sono rimasto incastrato tutto l’intervallo aspettando che le persone alla mia destra e sinistra rinvenissero, riuscissero ad alzarsi e a guadagnare le rispettive uscite. Insomma non riuscii ad andare in bagno. Del resto anche parecchi di loro non ce la fecero.
I giovani, dicevo. La discriminazione per chi fa “una cosa da vecchi” – andare alla classica, ancora peggio alla lirica – inizia molto presto, ne sono testimone. I giovani li vedo nascere e crescere a scuola. Mi fanno paura, possiedono già un repertorio adulto di pregiudizi e motivazioni. Ho anche il sospetto che una cosa da vecchi sia qualcosa che ha a che fare con la complessità. In classe: “Prof, quanto ci vuole a imparare a suonare così?…No, al Conservatorio non ci vado, troppo difficile”. La difficoltà è un’accusa e un pericolo. I genitori, senza volere, proteggono spesso i bambini dalla difficoltà e, nel caso della musica, chiedono solo disimpegno (“in musica devono divertirsi”). Insomma, la musica non è importante: è intrattenimento. Non deve essere complessa. Non dobbiamo dare fastidio, nè io nè la Musica. E poi dire o produrre qualcosa giudicata difficile ti rinchiude automaticamente nella torre d’avorio.
Anche gli insegnanti, a volte, senza volere, si comportano come avessero orrore della complessità. Una mia – brava – ex collega di Lettere: “Tu fai l’opera lirica a scuola!? Ma è difficile!” Risposta mia: “Tu fai Leopardi a scuola!? Ma è difficile!”. Rispondo sempre così, riportando ogni simile sciocchezza nei campi importanti, facendola esplodere. Per fortuna, da precario, cambio scuola quasi tutti gli anni. Comunque i bambini e i ragazzi che vedo alle mie lezioni-concerto di lirica si divertono, apprezzano e capiscono. Alla fine della lezione quando li saluto dicendo “Portate i vostri genitori all’Opera Lirica!” penso che solo in pochissimi ce la faranno. Stanno arrivando le risposte al mio invito su Facebook per il concerto d’inaugurazione della stagione degli Amici della Musica di Modena: “cerco di venire; se posso vengo; ci provo; spero di farcela;
mi piacerebbe ma…; mi organizzo per la prossima volta; grazie Claudio! Continua a pubblicare perché prima o poi riuscirò a venire!”. Ma perché mi hanno risposto? Il mio era un invito generico su un socialnetwork, non una telefonata. Potevano non rispondere o cavarsela con un “mi piace”. Invece vogliono partecipare anche senza partecipare. O forse significa “Non vengo, ma non credere che non ami la musica, o che non frequenti abitualmente i concerti…”.
Devo fermarmi. Mi accorgo che si fa sempre più disordinata l’accoglienza, l’organizzazione e la stesura dei pensieri. Stesura? Sto parando colpi! Vengono da tutte le parti, sembra di stare nel bel mezzo di una battaglia. Non vedo la fine, non riesco a delimitare il campo, figurarsi a fare affermazioni o tantomeno a cercare risposte. Colpa dell’argomento, anzi del titolo stesso. Colpa mia. Mica me l’avevano imposto l’argomento, tantomeno il titolo; ma perchè l’ho scelto!? E poi io non sono uno studioso in questo campo, non mi occupo di meccanismi sociali, psicologici, comunicativi e quant’altro… devo fermare anche questi pensieri, sento che sto quasi per dire io non capisco niente di quello di cui ho parlato finora. Sì, devo fermarmi, e poi ho già superato il numero di battute richieste.
Sento il bisogno di dare maggior peso specifico, di dire qualcosa d’importante, insomma, almeno di terminare seriamente. Quindi non userò parole mie.
Emanuele Arciuli, fine pianista e pensatore italiano: Siamo così sicuri che la vera urgenza del Paese sia quella di alfabetizzare la popolazione italiana alla musica? Io non credo. Quello è un compito importantissimo, per carità. Ma lo è in condizioni di “pace”. Noi invece siamo in guerra. (…) La crisi culturale, che nel nostro paese è devastante, non è l’effetto della crisi economica, ma ne è la causa.
Queste parole invece sono mie: mettiamoci in gioco.