a cura di Guido Giannuzzi
Giuseppe Mazzini (1805-1872) è stato il grande (e discusso) uomo politico e pensatore che tutti noi abbiamo conosciuto fin dai banchi di scuola, figura centrale del Risorgimento italiano. Forse, però, non in tanti sanno che fu competente conoscitor di musica e provetto chitarrista. La sua passione per quest’arte si concretò in un saggio dal titolo Filosofia della Musica, pubblicato nel 1836, dal quale riportiamo un estratto, particolarmente significativo per le considerazioni sulla musica italiana e di Rossini in particolare.
E venne Rossini
La musica italiana è in sommo grado melodica. Fin da quando Palestrina tradusse il cristianesimo in note, e iniziò colle sue melodie la scuola italiana, essa assunse questo carattere e lo conservò. L’anima del medio Evo spira in essa e la suscita. L’individualità, tema, elemento de’ tempi di mezzo, che in Italia più che altrove ebbe in tutte cose espressione profondamente sentita ed energica, ha ispirata, generalmente parlando, la nostra musica, e la domina tuttavia. L’io v’è re: re despota e solo. S’abbandona a tutti capricci; segue l’ arbitrio d’ una volontà che non ha contrasto: va come può e dove spronano i desiderii.
Norma razionale e perpetua, vita progressiva unitaria, ordinata pensatamente a un intento non v’è. V’è sensazione prepotente, sfogo rapido e violento. La musica italiana si colloca in mezzo agli oggetti, riceve le sensazioni che vengono da questi, poi ne rimanda l’ espressione abbellita, divinizzata. Lirica sino al delirio, appassionata sino all’ebbrezza, vulcanica come il terreno ove nacque, scintillante come il sole che splende su quel terreno; modula rapida, non cura – o poco – dei mezzi e delle transizioni, balza di cosa in cosa, d’affetto in affetto, di pensiero in pensiero, dalla gioia estatica al dolore senza conforto, dal riso al pianto, dall’ ira all’ amore, dal cielo all’ inferno – e sempre potente, sempre commossa, sempre concitata ad un modo, ha vita doppia dell’ altre vite: un cuore che batte a febbre. La sua è ispirazione; ispirazione di tripode, ispirazione altamente artistica, non religiosa. Prega talora – e quando intravvede un raggio del cielo, dell’anima, quando sente un’aura del grande universo e si prostra, e adora, è sublime – e la sua è preghiera d’una santa, d’una rapita; ma breve: – tu senti che s’ella piega la fronte, la rileverà forse un istante dopo in un concetto d’ emancipazione e d’ indipendenza: tu senti che s’è curvata sotto l’ impero d’ un passeggero entusiasmo, non sotto l’ abitudine d’ un sentimento religioso immedesimato con essa. Le credenze religiose vivono d’una fede in tal cosa ch’è posta al di là del mondo visibile, d’ una aspirazione all’ infinito, e d’un intento, d’una missione che invade tutta intera la vita, e trapela ne’ menomi atti. Ed essa non ha fede che in sé, non ha ad intento che sé. L’Arte per l’Arte è formola suprema per la musica italiana. Quindi il difetto d’unità, quindi il procedere frazionario, sconnesso, interrotto. Cova segreti di potenza che attemperata ad un fine, sommoverebbe, per raggiungerlo, tutto quanto il creato.
L’Arte per l’Arte è formula suprema per la musica italiana
Ma dov’è questo fine? Manca il punto d’appoggio alla leva, manca il vincolo tra le mille sensazioni che le sue melodie rappresentano. Come Fausto, essa può dire: ho percorso del mio volo l’intero universo; ma a parti e sezioni, coll’analisi di cosa in cosa – l’anima e il Dio dell’universo, ove sono?
A musica siffatta, come ad ogni periodo, o popolo o disciplina che rappresenti e idoleggi nel suo sviluppo l’ individualità, doveva sorgere corrispondente un uomo che riassumendole tutte in sé, si collocasse a simbolo e la conchiudesse.
E venne Rossini.
Rossini è un titano. Titano di potenza e d’audacia. Rossini è il Napoleone d’un’epoca musicale. Rossini, a chi ben guarda, ha compíto nella musica ciò che il romanticismo ha compíto in letteratura. Ha sancito l’indipendenza musicale: negato il principio d’autorità che i mille inetti a creare volevano imporre a chi crea, e dichiarata l’onnipotenza del genio.
Quand’egli venne le vecchie regole pesavano sul cranio all’artista, come le teoriche d’imitazione, e le viete unità aristoteliche del classicismo inceppavan la mano a qualunque s’attentava di scriver drammi, o poemi. Ed egli si pose vendicatore di quanti gemevano, ma non osavano d’emanciparsene, di quella tirannide; gridò rivolta, e osò. Codesta è lode suprema; forse s’ei non osava – se ai vecchi che gracchiavano: non fate, ei non si sentiva l’animo di rispondere: fo – non rimarrebbe a quest’ ora speranza di risorgimento alla musica, dal languore che minacciava occuparla ed isterilirla. Rossini, ispirandosi ad un bel tentativo di Mayer, e al genio che gli fremeva nell’anima, ruppe i sonni e l’ incanto. Per lui la musica è salva. Per lui, parliamo oggi d’iniziativa musicale europea. Per lui, possiamo, senza presumere, aver fede che questa iniziativa escirà d’Italia e non d’altrove. Non però giova esagerare o frantendere la parte che spetta a Rossini ne’ progressi dell’ arte; la missione ch’ egli s’ assunse, è missione che non esce da’ confini dell’ epoca ch’oggi gridiamo spenta o vicina a spegnersi. E’ missione di genio compendiatore, non iniziatore. Non mutò, non distrusse la caratteristica antica della scuola italiana: la riconsacrò. Non introdusse un nuovo elemento che cancellasse o modificasse potentemente l’antico: promosse l’elemento dominatore al piú alto grado di sviluppo possibile; lo spinse all’ ultima conseguenza: lo ridusse a formola, e lo ricollocò su quel trono d’ onde i pedanti l’avevan cacciato senza pur pensare, che chi strugge un potere, ha debito di sostituirne un migliore. E i molti che guardano anch’oggi in Rossini, come in un creatore di scuola e di epoca musicale, come nel capo di una rivoluzione radicale nella tendenza e ne’ destini dell’ arte, travedono, dimenticano le condizioni nelle quali, poco innanzi a Rossini, si stava la musica, commettono lo stesso errore che s’ è commesso intorno al romanticismo letterario da quanti han voluto trovarvi una fede, una teorica organica, una nuova sintesi di letteratura, e — quel che è peggio — perpetuano il passato, pur gridando avvenire.
Rossini non creò, restaurò. Protestò – ma non contro l’elemento generatore, non contro il concetto primitivo fondamentale della musica italiana; bensì a favore di quel concetto obliato per impotenza, contro la dittatura de’ professori, contro la servilità dei discepoli, contro il vuoto che gli uni e gli altri facevano. Innovò, ma più nella forma che nell’idea, più ne’ modi di sviluppo e d’applicazione che nel principio. Trovò nuove manifestazioni al pensiero dell’epoca; lo tradusse in mille guise diverse; lo incoronò di così minuto intaglio, di tanta fecondità d’accessorii, di tanto fiore d’ornato, che taluno potrà forse sederglisi a fianco, non superarlo: lo espose, lo svolse, lo tormentò fin che l’ ebbe esaurito. Non lo varcò.
Più potente di fantasia che di profondo pensiero, o di profondo sentimento, genio di libertà e non di sintesi, intravvide forse, non abbracciò l’avvenire. Fors’anche privo di quella costanza e di quell’alterezza d’animo che non guarda, se non dietro le esequie, alle mille generazioni vegnenti, anziché a quell’una che si spegne con noi, cercò fama, non gloria; sacrificò all’idolo il Dio; adorò l’effetto, non l’intento, non la missione; però gli rimase potenza a costituire una setta, non a fondare una fede. Dov’è in Rossini l’elemento nuovo? Dove un fondamento di nuova scuola? Dove un concetto unico, dominatore di tutta la sua vita artistica, che armonizzi a epopea la serie delle sue composizioni? Chiedetelo ad ogni scena, o meglio ad ogni pezzo, ad ogni motivo delle sue musiche; non al sistema, non all’opere, non ad un’opera intera. L’edificio ch’egli ha innalzato, come quel di Nembrotte, ferisce il cielo; ma v’è dentro, come in quel di Nembrotte, confusione di lingue. L’individualità siede sulla cima: libera, sfrenata, bizzarra, rappresentata da una melodia brillante, determinata, evidente, come la sensazione che l’ha suggerita. Tutto in Rossini è appariscente, definito, saliente; l’indefinito, lo sfumato, l’aereo, che parrebbero appartenere più specialmente all’ indole della musica, han dato luogo, quasi fuggenti dinanzi all’ invasione d’ uno stile avventato, tagliente, d’una espressione musicale positiva, risentita, materialista. Diresti le melodie rossiniane scolpite a basso-rilievo. Diresti fossero sgorgate tutte dalla fantasia dell’artista sotto un cielo d’estate di Napoli, in sul meriggio, quando il sole inonda su tutte cose, quando batte verticalmente, e sopprime l’ ombra de’ corpi. È musica senz’ombra, senza misteri, senza crepuscolo. Esprime passioni decise, energicamente sentite, ira, dolore, amore, vendetta, giubilo, disperazione – e tutte definite per modo che l’anima di chi ascolta è interamente passiva: soggiogata trascinata, inattiva: – gradazioni d’ affetti intermedi,concomitanti,non sono poche: aura del mondo invisibile che ci circonda, nessuna. Spesso l’istrumentazione accenna un eco di questo mondo e par si affacci all’infinito; ma quasi sempre retrocede, s’individualizza, e diventa anch’ essa melodia – Rossini, e la scuola italiana di che egli ha riassunto e fuso in uno i diversi tentativi, i diversi sistemi, rappresentano l’ uomo senza Dio, le potenze individuali non armonizzate da una legge suprema, non ordinate a un intento, non consacrate da una fede eterna.