Mauro Masiero

“Un percorso di pura energia”. Così Quirino Principe sulla galassia costituita dai sedici quartetti e dalla Grande Fuga di Ludwig van Beethoven, un corpus che contempla alcuni tra i più alti raggiungimenti dell’attività umana, non soltanto in campo musicale. Tentiamo di sondarne la vastità siderale iniziando con una sintetica panoramica a volo d’uccello.

Si tratta di un “percorso” poiché il genere del quartetto accompagnò tutte le fasi della vita e della produzione beethoveniana, più che il pianoforte e l’orchestra, ancorché in quantità numericamente inferiore: fu in questo genere e in questo organico che Beethoven trovò il più alto raffinamento del suo apprendistato con i sei quartetti op. 18 tra il 1797 e il 1800, nei quali, tuttavia, “era chiaro che Beethoven andasse cercando qualche cosa di più”, scrive Joseph Kerman. Il compositore giunse a Vienna nel 1792 “per ricevere, con ininterrotto zelo, lo spirito di Mozart dalle mani di Haydn” e qui inizialmente venne acclamato come fenomenale virtuoso e improvvisatore al pianoforte; il suo lavoro come compositore era ancora in uno stato embrionale. Il genere del quartetto si rivolgeva a un pubblico ristretto e competente, costituito di musicisti dilettanti di ottimo livello o professionisti, amatori e intenditori di musica che sapevano afferrare le finezze e le debolezze della scrittura e dello stile. La composizione di quartetti era quindi un terreno accidentato, che non consentiva dilettantismi né approssimazioni e Beethoven attese qualche anno prima di cimentarvisi. Quando pubblicò l’op. 18 era consapevole di aver compiuto il passo decisivo verso la sua consacrazione come compositore nella capitale della Musica: Vienna. Questa prima raccolta, infatti, non si apre con il primo quartetto in ordine cronologico, bensì con quello reputato il migliore da Beethoven e da Schuppanzigh, suo violinista di riferimento. Il numero di sei quartetti, di cui uno in modo minore, rispondeva a un uso tradizionale – Haydn e Mozart pubblicarono diverse raccolte di quartetti in gruppi di sei – segno ulteriore della volontà del giovane Beethoven di affermarsi come continuatore del grande stile haydniano e mozartiano (quello che oggi chiamiamo classico), nel pieno rispetto della grande forma. L’apprendistato formale è, con l’op. 18, già compiuto, con tratti individuali ben distinguibili – e forieri quanti altri mai di conseguenze – che tralucono dall’oggettività della forma sonata. Sappiamo dai suoi quaderni di appunti e da alcune lettere che la gestazione di questi quartetti fu lunga e ardua, tratto caratteristico di Beethoven, solito a una profonda, persino drammatica elaborazione del materiale musicale. Questo laborioso procedimento compositivo era dovuto anche allo spettro della sordità, che dal 1797, anno di composizione dell’op. 18 n. 3, iniziò a insinuarsi nella sua esistenza. Il dedicatario dell’op. 18 fu il principe von Lobkowitz, ottimo dilettante di violino e mecenate, nel cui palazzo risuonarono per la prima volta i poderosi accordi della Sinfonia Eroica nell’agosto del 1804.

Fu con i tre quartetti Rasumovsky op. 59 che Beethoven – tra il 1805 e il 1806 – seppe trasporre la nuova via dell’Eroica all’interno di una composizione cameristica, dilatandone le forme e i confini, ampliandone la sonorità, esasperandone l’espressività. Il committente e dedicatario di questi quartetti era l’ambasciatore russo a Vienna, Andrey Kirillovich Rasumovsky, anch’egli eccellente violinista dilettante e mecenate, che nel 1808 fondò un quartetto d’archi privato guidato da Ignaz Schuppanzigh. Il fenomeno di un quartetto di professionisti e il nuovo stile eroico beethoveniano dell’op. 59 vanno di pari passo: Beethoven non concedeva nulla ai musicisti. L’urgenza creativa lo portava a ignorare le difficoltà tecniche imposte agli esecutori, cosa che andrà esacerbandosi sino ai limiti dell’umanamente sostenibile con le composizioni dei periodi più tardi, si pensi soltanto all’emblematico, in questo senso, quartetto vocale nel finale della Nona Sinfonia. Già prima del 1810 la sua scrittura era di una vastità e di una difficoltà sino ad allora inaudite, tanto da richiedere l’interpretazione di musicisti professionisti e tanto da risultare sconvolgenti per il pubblico, nonostante a Vienna fosse, “almeno all’inizio dell’Ottocento, un po’ meno diffidente [rispetto che in Italia] nei confronti dell’originalità e si aspettava di essere sorpreso, o anche sconcertato, dai nuovi sviluppi dell’arte”, scrive Charles Rosen. Beethoven fu il primo artista a pretendere di essere ascoltato in silenzio, il primo a pretendere piena autonomia da qualsivoglia autorità, un ruolo sociale riconosciuto e sostenuto dallo Stato e questa sua volontà granitica trovò magnifica espressione nella superbia dei Rasumovsky, dopo i quali Beethoven non scrisse più quartetti pensati all’interno di raccolte: i successivi furono concepiti come singole unità.

Tra il 1809 e il 1810, Beethoven riconobbe nuovamente nel quartetto per archi l’opificio ideale per ulteriori sperimentazioni ed elaborazioni stilistiche: l’op. 74 sembra placare l’esuberante impeto eroico dei Rasumovsky in favore di una ritrovata distensione apollinea e un controllo supremo sulla Forma. Con l’op. 95, invece, si spinse in là sino a forgiare un linguaggio radicale ed esoterico, aspro ed ermetico, analitico, ellittico. Ogni elemento è distillato alla sua essenza. Si tratta del cosiddetto Quartetto Serioso, che porta con sé almeno due fatti paradossali quantomai rivelatori: 1) il dedicatario, il conte ungherese Nicolaus Zmeskall von Domanocvetz, era un nobile funzionario ungherese talmente affascinato dalla figura titanica di Beethoven da assicurargli la sua disponibilità totale, costante e servile, sbrigando per lui le faccende pratiche più disparate e accettando a testa bassa le intemperanze e le soperchierie del Maestro. 2) Beethoven si premurò di comunicare all’editore che il quartetto era riservato a una cerchia ristretta di intenditori e che non avrebbe dovuto essere eseguito in pubblico. Questi due aspetti paradossali, lungi dal costituire gratuita aneddotica, svelano molto della personalità dell’autore, del suo sprezzo per l’autorità costituita, dell’importanza suprema che conferiva al linguaggio musicale: un’ esigenza di dire musicalmente così forte dal travalicare ogni necessità editoriale, commerciale, personale. Ciascuna nota del più radicale dei suoi esperimenti è dotata di peso strutturale e di una funzione portante nell’equilibrio dell’edificio sonoro: il quartetto si afferma dunque come luogo prediletto per la meditazione e per la speculazione.

Circa una quindicina d’anni separano l’op. 95 dagli Ultimi Quartetti. L’op. 127, concepito nel 1822 contemporaneamente alla Nona Sinfonia, vide la luce solo nel 1825. Gli ultimi anni di Beethoven furono tremendamente difficili: la sordità era divenuta, almeno dal 1816, pressoché totale e la conseguente misantropia si acuì trascinando con sé isolamento e instabilità finanziaria. Nella musica tuttavia, ciò non lascia che una traccia minima: la volontà d’acciaio, l’esigenza – talora disperata – di comunicare e la consapevolezza di avere ancora molto da dire sulla musica e tramite la musica trascendono il mero dato biografico.

Nel periodo in cui lavorò alla Missa Solemnis (op. 123) alla Nona Sinfonia (op. 125)  Beethoven elesse definitivamente il quartetto a suo mezzo privilegiato ed esclusivo di espressione intima e ancora, sempre, incessantemente di sperimentazione, di costante lavorio formale: vi affidò il suo pensiero più estremo, le inquietudini, le riflessioni più profonde, un umorismo ora nero e sardonico, ora genuino e bonario. Nel cosmo della produzione beethoveniana, gli Ultimi Quartetti (opere 127, 130 – 135) si aggregano in una costellazione abbacinante di luce, veri astra cui Beethoven giunse attraverso gli aspera di un lavoro continuo di metamorfosi, di lotta titanica con la materia più sublime e più vile, di una vita di dolore e rinuncia; di pure volontà ed energia, appunto.

Che cosa ha fatto sì che, dopo gli splendori michelangioleschi della Missa Solemnis e delle ultime sinfonie, Beethoven si fosse rivolto nuovamente al genere da camera per eccellenza, capace del solo timbro di quattro strumenti ad arco? È un topos nella storia delle arti e del pensiero che lo stile tardo di un autore sia caratterizzato da maggiore astrazione, da un pensiero distaccato, atemporale e ultraterreno, scaturigine di un’incessante riflessione sulla forma e sulla materia maturata nel corso di tutta una vita. Scrive Carl Dahlhaus che “L’opera tarda è […] già alla sua nascita intimamente estranea all’epoca a cui appartiene esteriormente. Un abisso la separa dal tempo di cui porta la data”. Nel periodo aurorale della generazione romantica, Beethoven scelse ancora una volta di agire controcorrente: in un’epoca in cui “un’esigenza di radicale novità inventiva […] rese sostanzialmente convenzionale la rottura delle convenzioni da parte dei compositori, […] Beethoven […] fino alla fine dei suoi giorni continuò a usare e persino a resuscitare procedimenti musicali che aveva appreso da bambino” (Rosen). Egli si rivolse con attenzione particolare, meticolosa e analitica a due procedimenti antichi che assursero a cardine del dato musicale in sé: la variazione e la fuga, tanto da rinunciare in alcuni casi alla forma sonata. Queste gli consentirono un lavoro capillare sulla cellula musicale, sulle unità minime della sintassi, sulle loro metamorfosi, sulle loro interazioni contrappuntistiche; gli permisero una meditazione sul concetto di tempo e sul suo fluire che solo l’ascolto attento di alcuni particolari movimenti – e tenteremo più in la di accennare quali – può parzialmente schiudere. Si tratta di procedimenti profondi e complessi al limite del trascendente, per i quali non troviamo parole migliori di quelle, ancora una volta, di Quirino Principe: “La funzione suprema delle due forme, la fuga e la variazione, è nella loro essenza: l’assoluta autogenesi della musica […].”

Lo stile ermetico sperimentato con il Serioso non portò a una ulteriore radicalizzazione  e a un inasprimento del linguaggio in senso espressionista (ad eccezione della supernova che è Grande Fuga), ma cedette sorprendentemente il passo a una ritrovata cantabilità, talora addirittura serena, ironica, disincantata, a uno scavo nella meditazione più introspettiva. L’oggettività della forma applicata con tanta maestria e coerenza nei Rasumovsky divenne una cosa sola con la soggettività dell’espressione, che la nebulizza senza distruggerla.

Con l’op. 127 Beethoven mantenne la tradizionale suddivisione in quattro movimenti, ma inserì nella nuova, irenica cantabilità numerosi elementi irrazionali che ne dilatano le sezioni e ne ampliano la forma; qui sperimentò per la prima volta negli Ultimi Quartetti le forme ultime della variazione e della fuga. Nell’op. 132, il successivo in ordine cronologico, aggiunse un quinto movimento, radicalizzò ulteriormente la sua scienza armonica e formale sino a condurre all’interno del Quartetto l’elemento vocale con lo Heiliger Dankgesang. Coacervo di contrasti tra i suoi sei movimenti, ma anche interni a ciascun movimento nella sua individualità è l’op. 130, che originariamente culminava nella tensione sovrumana della Grande Fuga, supremo, lucido, vertiginoso delirio, tanto sconvolgente e trascendentale, tanto libera e ricercata da indurre lo stesso autore a pubblicarla a parte come op. 133. L’op. 131 mette in discussione la natura stessa del quartetto come genere: in esso ciascuno dei sette movimenti confluisce nel successivo in uno straordinario lavoro di logica interna. Dopo aver raggiunto ed esplorato il cosmo, sorvolando i singoli soli dell’ultimo periodo beethoveniano, ci si può a buon diritto aspettare il massimo grado di speculazione e astrazione dall’ultimo quartetto op. 135, una emanazione di luce bianca pervasiva e irresistibile, ma Beethoven seppe sorprendere ancora una volta con un ritorno ai quattro movimenti, una forma sonata ancor più atomizzata e una inaspettata, spiazzante ironia di commedia.

Il Maestro morì circa cinque mesi dopo la composizione dell’ultimo quartetto carico di progetti per il futuro: le avversità del destino non gli avevano impedito attimi di buon umore, né avevano scalfito la speranza e il desiderio di cingere l’umanità intera in un abbraccio, come riuscì a esprimere nella Nona Sinfonia.

E del resto aveva affibbiato al corpulento Schuppanzigh il soprannome di Falstaff, personaggio che in un altro prodigioso opus ultimum canterà, guarda caso articolato in una fuga, “tutto il mondo è burla”.