Piero Mioli
Con Eschilo, Sofocle, Euripide, Lope de Vega, Racine, Goethe e Alfieri senza dubbio William Shakespeare è il massimo drammaturgo della civiltà occidentale (in una selezione ulteriore forse pari solo al secondo). Ed è un artista di teatro e di penna fra l’altro frequentemente e felicemente compromesso con la musica, su tutti i versanti possibili. Personaggio piuttosto oscuro, nacque nel 1564 a Stratford-on-Avon (Warwickshire), non lontano da Birmingham, da famiglia modesta; nel 1592 andò a Londra e partecipò alla fondazione di una compagnia teatrale detta prima Lord Chamberlain’s Men e poi, grazie al nuovo re Giacomo I Stuart, King’s Men, con la quale collaborò intensamente come autore e come attore lavorando a fianco dei vari teatranti e quindi anche dei musicisti; e nel 1616 morì, nel paese natale. La sua opera comprende 36 drammi (tragedie e commedie) e ha tre tipi di rapporto con la musica: la quale è citata direttamente nella scrittura; fu un tipico elemento sonoro delle rappresentazioni d’epoca; e doveva divenire un aspetto speciale della fortuna.
Alcuni riferimenti: secondo il Mercante di Venezia l’uomo che non abbia musica in sé è un malvagio, un falso, un traditore; nell’Amleto si insegna a suonare il flauto; nella Bisbetica domata il bravo Ortensio dà lezioni di musica all’amata Bianca; in Pericle, principe di Tiro tal Thaisa ritorna in vita al solo suono della viola; qua e là, inoltre, si cita il liuto, la musica è invocata come mezzo di distensione, la viola viene elogiata (a scorno del fiddle ovvero violino e a volte anche della musica sacra), le didascalie chiedono di suonare ai corni e alle trombe. Ma i testi di Shakespeare a volte abbandonano la prosa della recitazione e propongono dei versi per il canto, con indicazioni lampanti come “He/She sings” (egli/ella canta): cantano in Amleto Ofelia e il primo becchino (costui zappando), in Otello Desdemona (la canzone del salice, dopo aver detto “quella canzone non mi esce di mente”), nella Tempesta Ariele (“Where the bee sucks”, cioè “Dove l’ape succhia”). E si sa che allora le rappresentazioni prevedevano preludi, minuetti, hornpipes (danze allegre come le omonime cornamuse), slow airs (arie lente), gighe finali, musiche scritte appositamente o disinvoltamente parafrasate da melodie precedenti, anche anonime e popolari, per mano di compositori come Morley, Johnson, Jones, Lauder, Wilson, Nicholson.
Quanto alla fortuna del teatro e della drammaturgia di Shakespeare presso i musicisti dei secoli futuri, i contributi sono sterminati: alcune costanti di quattro secoli di felicissima sopravvivenza sono i generi particolari della musica di scena e della colonna sonora, destinati ad agevolare la messinscena o il film almeno là dove il testo lo richiede; la notevole e certo ovvia prevalenza dei musicisti inglesi; e un’attenzione costante nel tempo con l’eccezione del periodo classico (dall’estetica un po’ troppo formalistica per la prepotente irregolarità di William), forte nell’800 e non di meno nel ‘900. Fra i nomi più ricorrenti, ecco Walton, Humperdinck e Castelnuovo Tedesco. Alcuni esempi in genere possono essere Antony and Cleopatra di Barber, Henry VIII di Saint-Saëns, Re Lear di Frazzi, Das Liebesverbot di Wagner (da Misura per misura), Béatrice et Benedict di Berlioz (da Molto rumore per nulla), Riccardo III di Canepa. E finalmente i casi speciali di Hamlet, Macbeth, The merchant of Venise, The merry wives of Windsor, A midsummer night’s dream, Othello, The tempest, Romeo and Juliet.
Amleto è diventato poema sinfonico con Liszt, ouverture con Čajkovskij, balletto con Blacher, e opera fra gli altri con Mercadante e Thomas. Da parte sua Macbeth è diventato opera una decina di volte con l’ovvio capolavoro di Verdi, poema sinfonico con Strauss e altro con Smetana e Malipiero. Il mercante di Venezia ha avuto minor fortuna, ma il libretto che Giorgio Tommaso Cimino scrisse per la musica di Ciro Pinsuti (1873) fa cantare a Porzia un’aria dal senso chiarissimo, “Di sua carne aver puoi tu / una libbra, e nulla più! / [..] Ancor pon mente / che il contratto non consente / con le fibre il sangue aver!!” (alla fine “l’empia tribù” degli ebrei s’allontana mentre i cristiani implorano loro pietà). Commedia teatralissima, Le allegre comari di Windsor sono diventate opera comica con Salieri, Balfe, Adam, Verdi e spesso con il titolo del personaggio più originale ovvero Falstaff. Estraneo alla sensibilità italiana, il magico Sogno di una notte di mezz’estate ha allettato presto Purcell, più tardi Weber, ancora dopo Britten. Notevole la fortuna di Otello, se non per altro per il melodramma di Rossini (mediato da una versione francese) e il dramma lirico di Verdi che sono capolavori entrambi. Quindi la Tempesta, che non agli italiani ma agli stranieri è sempre piaciuta molto, con i casi novecenteschi di Honegger e Sibelius e l’ennesimo contributo di Čajkovskij, una vibrante “fantasia” per orchestra.
Ed ecco alcune notizie speciali sulla fortuna sonora del mito di Romeo e Giulietta. A dire il vero, il Seicento e il primo Settecento passarono disinteressandosi alquanto al lavoro, forse troppo sincero e intimistico per piacere a un’epoca così incline allo spettacolare e allo stravagante come il Barocco (o forse anche troppo poco conosciuto). Dopo il silenzio dei Sei e l’approccio del Settecento, sarà l’Ottocento romantico a impossessarsi cupidamente di un plot così appassionato.
Il melodramma italiano avvicina i due personaggi con Giulietta e Romeo di Zingarelli, alla Scala di Milano nel 1796, sopra un libretto scritto da un poeta poi sempre associato alla farsa rossiniana come Foppa: la “tragedia per musica” del fecondo musicista napoletano nel giro di qualche stagione visitò anche Firenze, Bologna e Napoli, e ancora Milano, segno di particolare fortuna in un periodo ancora poco avvezzo alla prassi del repertorio. Lo stesso Shakespeare non era ancora tornato in auge, sebbene l’età romantica s’apprestasse a farne un suo vessillo per esempio in Francia contro l’idolo più recente di Racine; e difatti l’opera di Vaccaj che si chiamava Giulietta e Romeo e andò in scena alla Canobbiana di Milano nel 1825 con grande successo più che direttamente da Shakespeare derivava dal libretto di Foppa e da qualche altro testo drammatico o cronachistico.
Fresco trionfatore scaligero con Il pirata e La straniera, Bellini fece fiasco a Parma con la Zaira di Voltaire, e quando fu richiesto di un’opera nuova e veloce da Venezia non vide l’ora di riciclare quella musica. Romani aggiustò e accorciò il libretto scritto per Vaccaj, lui trascrisse e variò certe melodie di Zaira, i fiammanti Capuleti e Montecchi colsero un grande successo, nel 1830, e non si fermarono lì. Giulietta fu soprano, ovviamente; e Romeo mezzosoprano, perché un amoroso pressoché adolescente non era ancora adatto all’adulta voce del tenore e perché tenore era già Tebaldo stesso. Quando poi a cantare l’opera fu la somma Maria Malibran, nei panni vocalmente a lei più acconci di Romeo, capitò che la scena finale recuperasse il vecchio testo di Romani e la musica di Vaccaj: semplicemente, alla divina cantatrice piaceva così.
Ma non solo teatro, per tanto soggetto. Nel 1839 Berlioz ne fece eseguire una versione concertistica: con lui Roméo et Juliette fu una lunga sinfonia drammatica per tre solisti, 98 coristi e 160 orchestrali, plastica e commossa, traboccante di sentimento nel momento dell’amore e vispissima con lo “scherzo” della Reine Mab. E quanto al teatro, il generoso Ottocento musicale diede due bei contributi lo stesso anno: nel ’65 nacquero il dramma lirico di Marchetti e l’opéra in cinque atti di Gounod (con pezzi indimenticabili come l’aria virtuosistica di Juliette e il duetto d’amore dell’allodola e dell’usignolo). Appena quattro anni, ed ecco Čajkovskij comporre una stupenda ouverture-fantasia per sola orchestra, grondante di spasimo amoroso e irta di contrasti drammatici: la prima esecuzione ebbe luogo a Mosca nel 1870 (la terza versione doveva aspettare l’80), e la partitura non ha mai smesso di incontrare il favore dei pubblici (e dei grandi direttori d’orchestra). Di seguito, musicarono la funesta istoria nomi di varia bravura e notorietà come Mihalovich, Gui, Delius, Zandonai, Milhaud, Blacher, Dusapin.
Nel frattempo, due versioni di particolare lustro sono sorte dal balletto e dal musical. Il balletto è Romeo i Džuljetta di Prokofiev, eseguito a Brno nel 1938: piccolo miracolo da parte di un autore in genere classicheggiante, incisivo, ironico, il lungo balletto è una pietra miliare nella via odierna della danza, splendido crogiuolo di musiche ora nobili e ora popolari, di cerimonie cortigiane e di approcci amorosi, di personificazioni strumentali (il flauto per lei, la viola d’amore per lei e lui, di tutto per il paesaggio, la notte, la fontana) e di strumentali assurdità. Quanto al musical, si tratta di un’opera di Bernstein che risale al 1957: West Side Story, la “Storia del quartiere Ovest” che quattro anni dopo sarebbe approdata al cinema grazie a Robert Wise ha il coraggio di mutare anche il finale del vecchio ma imperituro argomento. Infatti Tony viene ucciso dai suoi nemici amici di lei, Maria crolla e dispera sul corpo dell’amato, una buona volta le due bande rivali rinunciano alle ostilità e danno sepoltura al giovane. Un giovane di origine europea, questo Tony, e una giovane di origine portoricana, invece, la sua Maria: come dire, quasi quasi, un ragazzo ghibellino e una fanciulla guelfa nella Verona medievale. Verona come New York, dunque, e grazie sia al genio di Shakespeare che alla geniale disponibilità dell’arte dei suoni.