di Rossana Fioravanti
1792, aprile. A Parigi, nelle ultime settimane, Robespierre ha tentato inutilmente di risparmiare alla Francia la guerra contro il re di Boemia e d’Ungheria. La sera del giorno 25, Strasburgo, lontana dal centro della politica ma plumbea nell’attesa di decisioni, riceve infine la notizia che la guerra è dichiarata. La coglie quasi con sollievo, come un temporale troppo a lungo desiderato.
Un capitano del genio, un borghese di provincia, siede accanto al sindaco della città François Dietrich, nella cena che segue ai festeggiamenti per l’entrata in guerra. Si chiama Claude Rouget, ha trentadue anni. Di guarnigione a Strasburgo, attende di partire per la guerra. Il giovane ingegnere sa conversare e rendersi simpatico; ama il teatro e si diletta di poesia ma quelle che gli riescono meglio sono le canzonette. Il sindaco lo invita a scrivere una marcia di guerra per l’Armata del Reno in partenza. Rouget accetta e in quella notte, quasi colto da un raptus, si mette al lavoro.
Non è troppo difficile: le parole son tutte già lì, gridate per le strade, dalle folle di cittadini, dai rivoluzionari di ogni regione di Francia, dal popolo liberato dalla Rivoluzione. Alle armi ! Marciamo, figli della patria ! Libelli e pamphlet le urlano, ne sono pieni i fogli volanti; i giornali, pubblicati a centinaia in ogni borgo e città, riportano esortazioni alla guerra e all’insurrezione contro tutte le tirannie. La patria è in pericolo.
E poi la musica: Rouget suona il violoncello, non troppo bene, a dire il vero. Il suo è un talento modesto, tuttavia Rouget è un ambizioso malgré soi. In seguito si dirà che la melodia non è di sua mano. Gossec, musicista affermato, dira invece che è l’opera di un analfabeta musicale, quindi potrebbe essere veramente di Rouget. La vita di Rouget non conosce che quest’unica fiammata di genio, una secca folata di creatività, quella di questa notte. Ma questo ancora non lo sa.
La sera del 26 aprile Rouget torna da Dietrich e insieme a lui, per gli ospiti del suo salotto, intona il nuovo inno. L’Inno per l’Armata del Reno, quello che sarà conosciuto come La Marseillaise, è pronto. Louise, moglie del sindaco, scrive al fratello Pierre Ochs in giugno: “C’est du Gluck en mieux, plus vif et plus alerte”. Manco a dirlo. In capo a qualche mese tutta la Francia canta Allosanfàn. Il giorno della gloria è arrivato?
Rouget non è un rivoluzionario infuocato di sentimento, non è un estremista. Ha addirittura aggiunto un “de Lisle” (o “de L’Isle”) al suo cognome per qualche grammo posticcio di nobiltà. Non è un democratico nel senso che oggi diamo a questa parola, né tantomeno un repubblicano. Nell’ora della caduta del re Luigi XVI di lì a poco, in agosto, Rouget, della rivoluzione ne ha già abbastanza. Protesta ufficialmente contro la destituzione del sovrano – vuole invece, da libertario, una monarchia costituzionale – non presta giuramento al nuovo corso politico e alla fine di molti mesi trascorsi in polemica con i suoi superiori, viene di fatto spinto a lasciare l’esercito. L’unico cuore francese che la Marsigliese abbatte dunque, è il suo, quello del suo autore. Non basta. Un anno dopo, l’amico Dietrich viene imprigionato dal Terrore. Troppo moderato, troppo morbido, è considerato ostacolo all’azione di Robespierre e della sinistra girondina; fra altri migliaia, verrà decapitato negli ultimi giorni del 1793. Rouget non ci sta, protesta di nuovo e stavolta finisce in prigione, e sarebbe pronto per la lama se non lo salvasse il 9 Termidoro, la caduta rovinosa di Robespierre (27 luglio 1794).
Di appartenenza realista, Rouget viene da una famiglia della piccola avvocatura di provincia. È nato in una cittadina del Jura, Lons le Saunier, nel 1760 ed è il maggiore di otto fratelli e sorelle. È certamente uno dei tanti francesi che, della farraginosa e frenetica successione dei fatti rivoluzionari, non sta capendo molto. Ha in mente di certo Liberté chérie, ma in fondo è solo un soldato mandato in guerra come milioni prima di lui. Di che libertà parla Rouget, di cosa canta?
La Marsigliese non gli porta né fortuna, né denari, sebbene sia diventata “Canto nazionale” nel 1795. Fattosi amico di Napoleone Bonaparte durante l’epoca del Direttorio, in seguito ci litiga più volte, inviandogli lettere insolenti che criticano la politica estera del Primo Console prima e dell’Imperatore poi (gli rivelerà addirittura che Joséphine sua moglie fa la cresta sulle derrate alimentari destinate alle armate). Risultato: Napoleone lo scarica e dal 1804 in poi proibisce la Marsigliese, preferendole altre composizioni di autori più riconoscenti.
Ma la vita è diventata difficile. Costretto a cercare alternative all’ambiente militare dove non è più benvisto, dopo mille lavoretti precari (traduttore dall’inglese, copista, giornalista) è commerciante di derrate per l’esercito.
Allontanandosi dalla vita pubblica Rouget scolora nelle pieghe della storia minima. Libertè chérie non gli lascia una bella eredità.
Scribacchia e pubblica canzonieri che non gli permettono di vivere o che non piacciono quanto La Marsigliese. Non solo: negli anni che vanno dal 1804 al 1830 perde numerose ottime occasioni, fra le quali un posto all’ambasciata francese dell’Aja poiché non gli va come i francesi trattano quel paese occupato e lo dichiara apertamente. Accumula debiti. Gli amici e un fratello corrono in suo aiuto ma il nostro ha dunque un pessimo carattere: è uno sconsiderato che si mette a litigare con coloro che lo aiutano. Come se qualcosa lo spingesse sempre a tenere alta la testa a qualsiasi costo, anche quando è già in ginocchio. Si rovina con le sue mani per paura di non mostrare di aver la schiena dritta. Uno sciocco o un eroe?
« …ho dovuto convincermi che quel che ho appreso presso la vostra casa due giorni fa sia purtroppo vero: siete detenuto a Sainte Pélagie (…) ditemi se posso fare qualcosa con il vostro creditore …Per quanto siete indebitato ?…Conosco l’uso che si fa della carcerazione politica e di quella per debiti. Vi raccomando una cosa: non vergognatevi di essere in carcere per debiti. É la Nazione che dovrebbe vergognarsi dei rovesci di fortuna che non cessano di abbattersi su di voi, l’autore della Marsigliese. A voi, di cuore, il vostro amico Béranger».
Ah! La Marsigliese, ancora. Brilla per crudeltà nella vita di Rouget.
Diciassette giorni di prigione a un vecchio di sessantasette anni. De Béranger, amico chansonnier di credo realista, conosciuto al paese natale dove Rouget è tornato a fare il commerciante, paga i suoi debiti e lo riscatta da Sainte Pélagie, la prigione di Parigi. D’ora in poi a Rouget il destino non riserva molto altro. Infine, solo Luigi Filippo gli verrà in aiuto, appena incoronato nel 1830, accordandogli una pensione di 3500 franchi che gli permetterà di vivere senza preoccupazioni eccessive. Muore nel 1836. Ha attraversato quasi indenne un’epoca famigerata e gloriosa godendone le asprezze emancipatrici senza in fondo mai comprenderle del tutto. Eroe minimo di un malinteso, ha dato voce e incoraggiamento, inavvertitamente si direbbe, a una volontà nuova, a un coraggioso e inedito desiderio di libertà, democrazia e governo popolare in cui lui stesso non avrebbe mai potuto credere. Fedele alla propria storia di “monarchista” moderato, non comprese né accettò le sedicenti “esigenze di governo”, né le sue paure e violenze. Aveva inteso scrivere un inno di battaglia e si era ritrovato autore di un canto che esortava gli animi alla ribellione nel nome del diritto universale e dell’uguaglianza. Ma Rouget era stato solo un soldato.
Ce lo immaginiamo alla fine della sua vita, ancora facile alla stizza, sempre polemico oltre ogni rischio, nemico di se stesso, a tapparsi le orecchie davanti ad ogni soldato che osasse intonare ancora Marchons! Marchons!
Nel 1915 quel che rimaneva dei suoi resti mortali fu traslato agli Invalides e posto accanto alla tomba di Napoleone.